Fina: ecco perché.

Il Pd è di nuovo primo partito e segna un nuovo record: oltre 632.000 contribuenti ci hanno scelto nel 2025 con il 2×1000. Nei tre anni di segreteria Schlein siamo cresciuti di oltre il 40 per cento. Ma più importante dei record è la chiave che abbiamo scelto per raggiungere questi risultati: trasferire, per la prima volta dalla fine del finanziamento pubblico, molte risorse ai territori, attivando un meccanismo premiale e collaborativo.

Perché, tra tanti limiti, il nostro resta il partito dei migliaia di circoli, delle militanti e degli amministratori locali. Il centrosinistra ha vinto 24 capoluoghi di provincia su 38 andati al voto e ha “strappato” due regioni alle destre. Tant’è che cercano e cercheranno di cambiare la legge elettorale con la quale governano, consapevoli che molti collegi cambieranno segno.

Le risorse hanno moltiplicato adesioni e Feste dell’Unità, hanno consentito la riapertura o addirittura il riacquisto di sedi, hanno estinto debiti e promosso formazione politica, protagonismo giovanile e femminile.

A livello nazionale abbiamo portato i dipendenti fuori dagli ammortizzatori sociali che duravano da otto lunghi anni e porteremo l’orario di lavoro a 35 ore settimanali a parità di salario; abbiamo ridotto le spese e pagato tutti i debiti del passato, recuperato crediti che erano dati per persi e fatto rispettare in modo severo le regole alle nostre e ai nostri eletti, attivando piattaforme avanzate di raccolta di piccole donazioni.

Il risanamento ha consentito – e consente – nuovi investimenti: dall’infrastruttura digitale alla formazione politica. In passato il Pd ha impiegato, con alterne fortune, le sue risorse in modo creativo; questa segreteria può essere accusata, se si vuole, di aver fatto scelte “classiche”: scommettere sull’organizzazione, su un partito solido, forte, presente, con un paziente lavoro di ricostruzione, giorno per giorno, mattone su mattone.

Naturalmente nessuno può seriamente teorizzare che non esista una relazione diretta tra questi risultati e una comunità che discute ma mantiene un alto grado di unità; tra questi risultati e una leadership capace di raccogliere sostegno e adesione e di rappresentare con forza una linea politica chiara e popolare su lavoro, sanità, istruzione, diritti, e su un nuovo umanesimo contro la violenza e le guerre. Qui non c’è nulla di mistico: è semplice organizzazione politica, per dirla con Max Weber, «un’azione orientata a uno scopo».

Per questo, quando leggo che per qualcuno il Pd sarebbe guidato da una specie di comitiva di foglie al vento, non capisco di quale partito stiano parlando e penso a quel vecchio adagio del giornalismo inglese: «Non vorrei disturbare le vostre opinioni con i fatti».

Il Pd è una comunità con mille anime: le sensibilità e le culture politiche di provenienza e quelle nuove; i territori e le articolazioni tematiche, di genere e generazionali; le singole personalità e poi le fondazioni, le riviste e le associazioni d’area. Un arcipelago che non è affatto incompatibile con l’esigenza di avere una linea chiara: piuttosto un’intelligenza collettiva, per stare a Gramsci, che unifica interessi e domande diverse in un progetto comune.

I partiti con una sola componente e una sola foto – quella della capa o del capo – li lasciamo alle destre. Noi preferiamo il pluralismo e una discussione vera piuttosto che la quiete apparente di un monologo. Ma tutto questo non basta se non viene messo a disposizione di una coalizione larga e unita intorno a un programma per il Paese, con priorità chiare da rappresentare con determinazione e credibilità nelle istituzioni e tra i cittadini. Ma l’attitudine a risolvere i problemi, a ricostruire pazientemente l’infrastruttura di un partito, a tenere insieme autonomia e alleanze, è esattamente quella che servirà all’Italia dopo il governo inutile e dannoso di questa destra.

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