Parla Nadia Urbinati. Ci siamo trovati da un giorno all’altro a dover sottostare a regole sociali e costrizioni mai subìte prima: chiusi in casa, lontani dai nostri affetti e impauriti abbiamo accettato, come inevitabili, limitazioni alle nostre libertà. Lo abbiamo fatto consapevoli dell’emergenza del momento, della loro importanza ma anche della provvisorietà di queste restrizioni; ben sapendo che la situazione era eccezionale e prevedeva regole eccezionali.

Dopo due mesi e mezzo, le restrizioni si sono allentate ma non abbastanza e non completamente. Così qualcuno comincia a chiedersi se non c’è il rischio che la nostra democrazia si stia trasformando in qualcosa di molto diverso.

Per la politologa Nadia Urbinati, Professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York questo rischio non c’è: “In tutte le democrazie costituzionali sono previsti sistemi, meccanismi giuridici ed istituzionali che prevedono regolano la possibilità di interventi ad hoc per affrontare situazioni eccezionali. In tutte le democrazie si prevedono procedure che deliberino in ordinarie condizioni di normalità, e nello stesso tempo si anticipa anche la possibilità del ricorso a interventi speciali per far fronte a condizioni impreviste e che richiedono tempi corti di decisione. Noi ci troviamo in questo caso. Alcune repubbliche presidenziali – come gli Stati Uniti – assegnano al presidente eletto prerogative che erano o del monarca e, come nella tradizione repubblicana classica, del dittatore, disponendo del potere di decretare lo stato di emergenza nazionale. Nelle democrazie di tipo parlamentare, soprattutto quelle che, come la nostra, sono frutto della reazione a periodi dispotici o fascismo, la costituzione ha voluto non designare alcun organo dello Stato che possa assumere questi poteri eccezionali. Solo il Parlamento può intervenire decidendo di trasformare i decreti in legge; anche se e quando l’esecutivo ha ricevuto una delega per intervenire con misure non ordinarie. Si tratta di una differenza sostanziale. Siamo noi oggi in una condizione che è a tutti gli effetti gestita da una normativa d’eccezione. Ci sono stati diverse critiche sull’uso dei decreti da parte della Presidenza del consiglio dei ministri, perché troppo esposta ai rischi di una normativa di tipo coercitivo. Io non credo, e gli stessi costituzionalisti lo hanno detto, che ci sia stata una deriva autoritaria e che il governo abbia abusato delle sue funzioni. Le decisioni fin qui prese sono state sempre all’interno del solco costituzionale previsto dal nostro ordinamento. Le misure di restrizione messe in atto oggi, che non hanno mai toccato per esempio i diritti di libertà di pensiero e critica mentre hanno contenuto temporaneamente il diritto al movimento, che tra l’altro la Costituzione regola e ne consente la limitazione. L’articolo 16 dice: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche”.  I nostri diritti civili stanno all’interno di una concezione della libertà che è vissuta con gli altri, in coerenza alla tradizione repubblicana. Insomma, le critiche di autoritarismo o di (addirittura) decisioni liberticide sono fuori luogo e ideologiche, strumenti propagandistici più che ragionate critiche”.

Il nostro paese nella storia repubblicana ha vissuto solo un altro momento di legislazione eccezionale, durante gli anni di piombo…
Quel caso è molto diverso. Lì si sono limitate libertà politiche nel nome della sopravvivenza dello Stato. Allora lo Stato si proteggeva dal terrorismo, oggi invece siamo tutti noi, uno per uno, che chiediamo che il governa prenda decisioni per la nostra salute e che accettiamo di agire responsabilmente verso gli altri (e quindi anche noi stessi). La differenza non è secondaria.  E, aggiungiamo, a coloro che parlano di questo come un momento autoritario, che le limitazioni imposte sono state date a cittadini, mai a sudditi. Non c’è stato nessuno stato di polizia, ma una ricerca di cooperazione – che ha avuto la sua espressione nell’autocertificazione; l’assunto è che la nostra libertà individuale confina con il dovere verso gli altri. Se io mi tutelo rispettando le regole, tutelo anche la salute degli altri.

Eppure le opposizioni, nel nostro Paese, invece di cooperare, hanno continuato a buttare benzina sul fuoco.
La cosa che ha destato stupore è stata che le opposizioni hanno scelto di svolgere un’azione più che di controllo e critica, di avversione. Certo, sono libere di fare il tipo di opposizione che vogliono; ma noi pure siamo liberi di criticare il loro modo di essere opposizione.  E’ un fatto che l’opposizione politica (quella dei partiti rappresentati in parlamento, che non è la stessa cosa dell’opposizione nella opinione dei cittadini e nella società), per tutta la durata della pandemia, non ha svolto una funzione utile, mirante a migliorare lo soluzioni proposte. Non ha svolto la sua funzione di analisi critica e di proposizione; ha preferito urlare sguaiatamente nei talk show – l’unico teatro sistematicamente calcato come palcoscenico naturale – per verificare il gradimento dell’audience.  Di nuovo: l’opposizione è importante in quanto c’è e non per quel che fa: e allora, spetta a noi criticare quel che fa. L’opposizione politica non è meno soggetta al nostro giudizio critico della maggioranza! E’ triste vedere come malati e morti siano stati messi sul tappeto dei sondaggi e utilizzati per mietere consenso e popolarità. Di fronte ad una pandemia, non è desiderabile vedere politici che pensano al loro gradimento personale; è legittimo e realisticamente possibile ma deprecabile e facciamo bene a criticarlo. Ciò che si vorrebbe dall’opposizione in un tempo tragico come questo è un contributo alla miglior soluzione dei problemi, una critica che ci faccia star meglio tutti, non solo i propri seguaci o i cittadini della propria regione. I leader di opposizione hanno dato l‘impressione di non aver compreso la gravità in cui il paese si è trovato. Sulla quale hanno cercato di guadagnare popolarità. Che cosa sarebbe stato di noi se al governo ci fossero stati la Lega e Fratelli d’Italia? Riusciamo soltanto ad immaginarlo?

Negli ultimi anni il ruolo dei partiti sembra essere stato messo ai margini, nella politica nostrana ma non solo, a favore di movimenti o partiti populisti e personalisti, con la pandemia come cambia il protagonismo dei partiti e quanto sono importanti per la tenuta democratica?
Non credo che si possa tornare alla forma tradizionale di partito di massa come lo abbiamo conosciuto nel secolo scorso, ma di sicuro c’è spazio per un soggetto collettivo progettuale che abbia la volontà e la forza di mobilitare e coinvolgere le intelligenze e le conoscenze di coloro che in esso si riconoscono, per poter proporre non alcune misure semplicemente ma una visione di Paese. Sarà ancora più necessario nella fase di ripartenza, quando le parti sociali saranno agguerrite. Ad oggi i partiti non si sono mostrati come un’entità collettiva, neppure il partito più partito che è il PD; si sono presentati essenzialmente come espressione di un leader; una fenomeno facilitato dai media e che non cambierà anche se può essere mitigato. Questo lo si può se si riesce a contrapporre al “partito del leader” un partiti come collettivo, con una struttura interna di discussione, elaborazione e deliberazione trasparente e pubblica capace di attrarre conoscenze e volontà competenti. Ciò sarebbe utile in primo luogo per i cittadini che non hanno potere socio-economico forte (e sono la stragrande maggioranza) e che non hanno mezzi per opporsi a quella parte di società che ha interessi molto corposi, forme organizzate e mezzi mediatici formidabili. Un cittadino comune, su chi potrebbe contare se non su un partito politico?

Per avere una struttura definita e fare attività politica, i partiti hanno bisogno anche di risorse: eliminare il finanziamento pubblico è stato un errore?
Si è stato un errore, nel quale è caduto anche il PD. L’attuale strumento del 2X1000 è secondo me criticabile, innazitutto perché non tutela il diritto alla segretezza del voto. Ma cambiare rotta è difficile oggi, perché si dovrebbe spiegare al Paese per quale motivo un partito che ha approntato quello strumento preferisca ora ritornare a un sistema di finanziamento pubblico. In situazioni di impoverimento della popolazione come quello attuale, questa sarebbe una scelta poco prudente. La verità è che si è sbagliato in passato abolendolo per cavalcare il consenso, mentre su temi fondamentali come questo sarebbe stato necessario tenere la barra dritta, in maniera coerente.  La forza del partito è forza della democrazia perché il partito è un’associazione libera e volontaria che opera per contribuire alle politiche e alla rappresentanza. Come soggetto che svolge un ruolo pubblico, il partito avrebbe bisogno di risorse pubbliche e non cadere in mano a chi ha più disponibilità economiche.

Lei prima ci invitava ad immaginare come sarebbe stato il nostro Paese se a governarci ci fossero state le attuali opposizioni. Noi un assaggio da lontano lo stiamo già vivendo: Trump, Bolsonaro, Johnson, la gestione dei paesi guidati da questi leader non è stata affatto esemplare. Quale caratteristica in comune ha più influito nella gestione negativa della crisi?
E’ una domanda interessante perché in effetti, in questa situazione emergenziale, il populismo ha assunto una fisionomia nuova: è diventato neoliberale anche se pronto a cavalcare il probabile scontento popolare. Trump e i governatori repubblicani degli stati non hanno scelto la politica della chiusura con un senso di disinteresse generale e con l’esclusivo obiettivo di fare campagna elettorale contro il nemico. Il nemico, in questo caso specifico, sono i democratici, accusati di autoritarismo per aver adottato rigide misure di contenimento di contagio negli stati dove governano e che sono anche i più popolosi ed esposti al contagio. C’è da scommettere che se i democratici avessero deciso di tenere tutto aperto, i repubblicani avrebbero scelto di chiudere. Perché la loro strategia retorica è essenzialmente opportunista (lo vediamo anche in Italia) e consiste nel creare e combattere contro il nemico.  Il populismo al governo (negli States o in Brasile o nella Gran Bretagna priva che Johson si contagiasse) ha cercato un nuovo fronte di opposizione e lo ha trovato nella “libertà” usata in chiave antisociale. Il populismo taccia chi ha chiuso di statalismo e perfino sovietismo nel nome della libertà. Un vero paradosso.

Si è detto, forse perché si auspica, che bisogna lavorare affinché il futuro sia meglio del passato. Addirittura un’opportunità per un nuovo modello di sviluppo: lei è ottimista?  In quale ambito vede più possibilità di cambiamento?
Non penso ad un futuro diverso anche perché non sono cambiati gli interessi. Quando ci sono in gioco tanti miliardi da utilizzare, e ce ne saranno tanti, chi è organizzato e forte, può meglio imporre il proprio peso nelle scelte dei governi. Ma qui non c’è davvero bisogno di accontentare una categoria piuttosto che un’altra. Quello di cui abbiamo seriamente bisogno è di sano conflitto politico, che non ha niente di violento, su quale idea di Paese abbiamo in mente. E’ questo a cui penso quando guardo al futuro. Le priorità poi non possono non partire dalla ricostruzione della sanità pubblica perché, lo abbiamo visto chiaramente, i cittadini dei paesi europei in cui c’è un sistema sanitario forte hanno sofferto meno. E poi bisogna puntare sulla ricerca e, naturalmente, sulla scuola (inconcepibile un paese tra i più industrializzati e avanzati con percentuali altissime di bambini e famiglie che non possono permettersi un tablet!). Sul versante scuola, il governo non si è comportato molto bene. Servivano garanzie per gli strumenti di scolarità a distanza e certezze sulle forme e i tempi di riaperture; si è dimostrata improvvisazione che riflette la debolezza cronica del nostro sistema scolastico pubblico e del lavoro dei ministeri, almeno dall’età della Gelmini. Un vero peccato.

da immagina.eu - di Agnese Rapicetta

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